Congo. Una moltitudine di prime volte. Primo aereo, primo viaggio per lavoro, prima volta in Africa. Stagione delle piogge, sì, lo sapevo, ma nessuno mi aveva detto che era così! Le palme si piegano in due fino a toccare terra, il vento è talmente forte che non si può aprire una porta e la pioggia è come venisse versata tutta insieme da catini immensi.
E i manghi cadono con tonfi sordi sulla tettoia di lamiera della casa.
Primo viaggio di lavoro appunto, biologa, ospite di un medico che occupa l'altra ala della casa e ora è fuori per le visite e io qui da sola ho paura.... il vento è sempre più forte, l'acqua una cascata, la casa intera sembra scuotersi sotto il fragore della tempesta! Guardo fuori, atterrita, le palme che sembrano doversi spezzare da un momento all'altro... poi di colpo tutto finisce. Niente acqua, niente vento, più niente. Timidamente apro la porta di casa, un tramonto bello, ma equatoriale: alle 18 precise prima è giorno, dopo qualche istante è notte.
Mi sento sola, dopo la paura di quella tempesta, ed esco. L'acqua scorre ai lati della strada (sterrata) e le persone camminano tranquille come se quell'inferno (per me lo era!) non ci fosse mai stato. Arrivo al confine che divide la città degli "espatriati", europei che vivono lì perché lavorano nelle multinazionali del petrolio, e la Cité dove vivono i "locali".
Mi avevano detto di non uscire mai da sola, ma non c'è nulla qui che mi ispiri paura. Percorro una specie di marciapiede lungo e arrivo a delle casupole fatte di lamiera e vari materiali di recupero, fuori le donne cucinano su fuochi di sterpi, in pentole di latta. Una la conosco, Martine, l'ho vista in ambulatorio, già sono circondata dai bimbi, tantissimi, belli i loro occhi che brillano e quei sorrisi, Martine mi viene incontro e mi invita ad "entrare" in quel cortile e in una lingua che non comprendo credo spieghi agli altri che sono la "Docteur" italiana.
Parlano tutti insieme, io ancora guardo il cielo nero di nuvole, eppure è molto caldo e afoso. L'Italia è così lontana.
Una delle donne si alza e mi cede la sua "sedia", una pietra bianca e levigata, mi schermisco, non vorrei, ma mi siedo: non conosco gli usi, non vorrei sbagliare atteggiamento. Poi la loro vita continua normale, acqua che bolle nelle pentole di latta sui fuochi fuori dalle case, uomini che vanno e vengono con carichi di vari materiali, vegetali e non. Sorrido, perché non so cosa altro fare! I bimbi mi guardano, mi parlano (io non capisco) e toccano il mio vestito di seta a fiori azzurri.
Poi qualcosa li distrae. Di colpo si alzano tutti e ridendo corrono verso una donna che è uscita da una delle casette di lamiera. E' anziana, direi, ma è così difficile qui dare un'età. I bimbi corrono da lei, ma con rispetto, non gridano più. Una ragazzina mi porge una specie di tazza e mi dice "tè". Mi fido e bevo, in fondo da quando sono arrivata non ho mai avuto nessuno dei "disturbi" tipici di chi va in Africa.
La donna anziana si siede su una sedia di paglia, i bimbi tutti intorno. Mi vede. Guarda proprio me, ma a differenza di tutti gli altri non sorride. Per la prima volta da che sono qui mi sento a disagio. Come se d'improvviso i miei capelli biondi non andassero più bene e i miei occhi azzurri fossero sbagliati, o forse è solo la mia pelle, così bianca, che è sbagliata.
Lei intanto ha iniziato a parlare, racconta, la voce calma e lenta, io non capisco. Ma i bambini sono silenziosi e ascoltano attenti, le donne continuano i loro lavori, cucinano, raccolgono i panni stesi, portano via le capre. Io sto qui, con la mia tazza di non-so-cosa in mano, rapita da queste attività di vita normale. E' buio e forse dovrei rientrare, i colleghi europei si staranno domandando dove sono finita. Anche alcuni uomini si sono seduti con i bimbi ad ascoltare il racconto, perché un racconto a me pare, quello della donna anziana.
I fuochi, la voce della donna e in un momento un ricordo: mia madre che mi parla di quando da bambina, sulle colline del Veneto, alla sera, stavano nelle stalle che erano calde, ad ascoltare le nonne, le nonne di tutti non una in particolare che raccontavano le storie della montagna! Le fate che apparivano ai tagliaboschi, i serpenti che succhiavano il latte alle vacche, quella tempesta che anni prima aveva distrutto i raccolti di tutti i contadini per colpa di un elfo innamorato e non corrisposto da una fanciulla del paese. E anche qualche pettegolezzo su chi, ovviamente, in quel momento non c'era: la figlia del sarto che si vedeva di nascosto col Pietro (promesso all'Anna) o il mugnaio che rubava sul peso della farina...
Un bimbo mi tira il vestito, quasi mi cade di mano questa strana tazza, ascolto la voce della "nonna nera", pagherei per capire cosa sta raccontando ai bambini e agli altri. Mi alzo dalla pietra bianca, Martine mi bacia sulle guance, tre volte, "Madame Marà", mi dice e altre cose nel suo strano francese. Mi giro un'ultima volta, i rivoli d'acqua che scorrono ancora ai lati della strada di fango, un cortile. Diverso da quello grigio di Milano dove sono cresciuta io. Diverso dai cortili della montagna Veneta che mi ha raccontato mamma. Ma poi, in realtà, diversi davvero? E per cosa? Perché? Anziani che raccontano ai più piccoli la vita. E la vita è vita dovunque. Restituisco la tazza alla ragazzina, due occhi grandi e neri di gazzella sotto bellissime treccine piene di perline di plastica colorate. Torno a casa. Casa. Quale? Un piccolo pensiero s'insinua, serpentello, come i serpenti dei racconti dei nonni in montagna. Casa è dentro. Dovunque sei. E i cortili che siano di cemento come i miei di Milano, che odorino di fieno come nei ricordi di mamma, che abbiano le fogne a cielo aperto come in Congo, forse, sono tutti uguali. Allora perché noi, uomini, no?