Jilliht nacque, e fu subito immensamente felice.
Con animo leggero si lanciò in alto e sorvolò l'erba fresca e profumata del sottobosco, godendo a fondo del suo pungente aroma, poi sfrecciò rapido tra gli alti steli filiformi delle piante palustri, affioranti qua e là sulle sponde dei laghetti che punteggiavano quel meraviglioso mondo arboreo tingendone il paesaggio di verde e ocra.
Destra, sinistra, svolte improvvise, salite vertiginose, picchiate alternate a planate e brevi soste a mezz’aria.
Jilliht era una fata, e quel suo primo volo esprimeva una gioia incontrollabile, libera e sfrenata: la consapevolezza di essere vivo e parte di un mondo ancestrale e puro in cui condividere con i propri simili la semplice felicità dell'esistenza.
Era al momento del crepuscolo, infatti, quando il sole si stava già adagiando placido dietro la lontana linea dell'orizzonte, e il sipario sulla lunga giornata non era ancora del tutto calato, quando la notte non aveva ancora acceso le sue mille luci nel cielo, in quel momento in cui tutto è indaco e le creature del giorno cedono il passo a quelle della sera, che i membri del Piccolo Popolo si lanciavano nella loro magica glorificazione della Vita.
Le fate rinascevano così ogni giorno.
Poco oltre il tramonto le corolle di cento gelsomini bianchi si schiudevano, rivelando al loro interno i minuscoli corpi di elfo e d'insetto gelosamente protetti nelle ore di luce.
Ogni fiore, in un certo senso, sbocciava due volte, perché al suo interno, nella candida alcova dei petali, sedeva accovacciato un pixie dal tenue bagliore rosa, una fata ammantata di luce celeste o un verde spiritello, che finalmente desto e libero spiegava le sue ali membranose e si lanciava nell'aria fresca della sera, grato agli dei per la natura che lo circondava e di cui ora faceva parte.
Le fate non avevano memoria, così ogni volo era sempre il primo volo, e la magia dell'esistenza ricominciava notte dopo notte, espressa da quella splendida, affollata e pur delicata danza di ringraziamento.
La semioscurità del bosco allora veniva rischiarata da mille scie luminose, rallegrata da sottili risa e impercettibili canti, col frusciare di ali trasparenti che affiancava in perfetto contrappunto il frinire lontano dei grilli. Una musica leggera, prodotta da strumenti invisibili e sconosciuti, rendeva la selva un tempio di pace e gioia infinita.
Molteplici, diafani corpi di fata si unirono quindi a Jilliht nella sua danza luminosa, in delicati turbinii di colore e frullio d'ali.
Presto egli incontrò Bindweed, e alla vista di lei il suo minuto cuore si strinse forte nel petto, battendo così tanto da squassarlo.
Lui le volò accanto, incontrando per un istante il suo splendido, disarmante sorriso, poi lei fuggì via, deviando repentina il suo volo verso l'alto, i lunghi capelli neri fluttuanti intorno alla sagoma perfetta e sensuale.
Jilliht la seguì agilmente, e ne nacque una gara che presto si mutò nell'intreccio di corpi e scie luminose, i visi delle due fate a sfiorarsi con urgenza sempre maggiore.
Nell'aria fresca della giovane notte, accarezzati dal vento e trasportati da emozioni pure e primordiali, per molti magici minuti i due danzarono rapiti, ciascuno attratto e guidato dall'altro come falene dalla luce bianca della luna.
Si arrestarono sotto la ghirlanda di una Bella di Notte, rimanendo sospesi sull'erba bassa; quattro paia di ali trasparenti che si agitavano freneticamente per mantenere immobili nell'aria i due piccoli corpi nudi, mai così vicini l'uno all'altro.
Ma a un istante solo da quell'abbraccio che Jilliht desiderava tanto, Bindweed fuggì.
Gli sorrise maliziosa e si dileguò.
Voleva giocare ancora e stuzzicarlo e Jilliht non poté far altro che inseguirla di nuovo.
La corsa ricominciò, i due si confusero in una nube tinta di rosa, verde e azzurro, mentre tutte le altre fate danzavano rapide ed eleganti attorno a loro.
Presto uscirono dallo sciame alla ricerca d’intimità. Bindweed, davanti, si voltava spesso e sorrideva, rallentava e poi fuggiva di nuovo, per poi tornare a voltarsi, e ogni volta il suo sguardo era più ammiccante, il suo sorriso più splendido e disarmante del precedente.
Finalmente Jillith la raggiunse – perché lei lo volle – e per lungo tempo i due volarono affiancati, mano nella mano, occhi negli occhi.
Bindweed lo condusse infine tra l'erba alta, al riparo da tutti gli sguardi, in un punto silenzioso e protetto del sottobosco: gli stette davanti, immobile, lo sguardo provocante perso in quello ammaliato di lui.
Jillith e Bindweed, finalmente soli, si fronteggiarono per lunghi istanti dentro un fitto baldacchino di fili verdi, morbidi e rassicuranti, con limpide perle di rugiada a moltiplicare all'infinito su ogni stelo il gioco dei loro sguardi e dei loro sorrisi. Le due fate erano divise soltanto dal sottile gambo di una margherita, che Bindweed d'improvviso superò annullando lo spazio tra di loro e regalando a Jillith uno sguardo saturo d'invitante malizia.
Gli tese languidamente la mano, sottile e perfetta, poi lo trasse a sé, giusto un istante prima di essere catturata da un lampo rosa, molle e appiccicoso che la trascinò brutalmente tra i cespugli con un sinistro frusciare di foglie e scricchiolare di ossicina spezzate.
Jillith, da par suo, ebbe appena il tempo di sentire la nota stridula di un urlo breve e acuto, poi un abbraccio caldo, soffocante e colloso avvolse anche lui, sempre di più, e tutto si fece nero.
***
“Mario, hai dato da mangiare ai camaleonti?”
“No, ma il vecchio irlandese giù al negozio ha detto che basta piantare nella teca un po' di gelsomini bianchi e metterla in giardino, che poi si arrangiano loro.”
“Scusa ma i camaleonti non sono insettivori? Mica mangiano i fiori!”
“Ma che ne so. Sono grassi però, e non mi sembra che stiano male. Se li guardi la sera vedrai che diventano anche rosa, verdi e celesti. Sembrano magici.”
“Sarà... ma io non li vedo mangiare; di cosa si nutrono, d'amore?”
“L'amore muove il sole e le stelle, Cesira. Può darsi...”
“Mario?”
“Eh?”
“Io vado a letto.”