L’ultima volta che ho visto mio marito si stava chiudendo la porta alle spalle.
Di quel momento conservo uno scatto nella mente: la sua bocca sprezzante e lo sguardo sofferente, accompagnato dal clack della porta che si chiude, dolce, dietro di lui e sul nostro matrimonio. Soffrivo? No, ero delusa. Il dolore nel suo sguardo rivelava quanto non si sentisse in grado, proprio non ce la facesse ad affrontare “noi”.
“Noi” siamo io e Matteo. Matteo è mio figlio.
È stato nostro nel momento in cui suo padre ne ha tagliato il cordone in sala parto, e l’ha preso tra le braccia con l’amore negli occhi e nel sorriso.
È stato nostro fino ai 3 anni, quando le cose non tornavano in quel bambino troppo silenzioso, immobile nello spazio e nel tempo, incapace di relazione: autistico.
L’autismo ha segnato un secondo concepimento. Matteo è uscito dal “nostro” ed è entrato nel “mio”. Mia la responsabilità, mio l’accudimento, mio l’Amore, quello che resiste a tutto, anche alle delusioni e alle porte chiuse.
Dopo anni di visite ho deciso di smetterla con i pareri di specialisti, illuminati o esoterici.
Mentre suo padre si allontanava, ci rifiutava e, infine, ci lasciava, io ho scelto di cercare una nuova strada con Matteo, una svolta: ho ereditato il casolare di mia nonna, sul lago ai piedi delle Orobie. Una lontana zia ha deciso che la casa di famiglia dovesse appartenere all’ultima donna della discendenza, ormai dispersa.
Matteo oggi ha 7 anni, è sempre chiuso su sé stesso, nel suo mondo ricco di esperienze che non posso condividere, ma che percepisco, perché so che mio figlio non è prigioniero di mura grigie, sento che il suo mondo è ricco quanto il mio.
Suo padre è perplesso, non crede che portare Matteo in un eremo - così ha definito il casolare - possa aiutarlo, vorrebbe spingere il bambino nella folla, cercare di omologarlo ai suoi coetanei, se non nella sostanza, almeno nella forma. Ma io ho scelto una strada diversa per noi, il “noi” indistinto che ci lega e separa insieme: io e Matteo.
Così si ricomincia.
Questa volta il clack della porta che si chiude alle nostre spalle è più secco, sa di decisivo, è l’eco di una fuga senza sguardi di dolore, ma con spalle che si allontanano da questa città folle e caotica, le mie. Soffro? No, sono piena di speranza.
Non appena raggiungiamo la nuova casa arroccata sulle pendici delle Orobie, a picco sul lago, esco dall’auto che raccoglie tutti i nostri averi, e mi guardo attorno.
Il casolare ha sofferto tre anni di abbandono, ma ha la parvenza solida del passato, ed il lago è uno zaffiro scintillante incastonato nelle montagne, dove i boschi verdi e le rocce ardesia si mescolano nel sole. Sento le guance dolere per lo sforzo di accogliere il grande sorriso che mi nasce dentro e, a fatica, trova la via verso il mio viso.
Mi volto e vedo Matteo seduto in auto, con lo sguardo fisso sul suo iPod, perso nel suo mondo impermeabile al mio, indifferente. Ma non voglio lasciar morire il sorriso e la speranza. Entro nella grande cucina di legno e pietra, con la vetrata spalancata sul paesaggio e rivedo mia nonna, con un grembiule ornato di gale sopra un vestito antico, i capelli luminosi raccolti in una crocchia stretta, che mescola qualcosa in una grossa pentola sul fornello. Sorride mentre noi nipoti la guardiamo adoranti, avvolti nel profumo di vaniglia e limone della sua bossolà. Anch’io regalerò questo profumo e questo sorriso a Matteo, nella grande cucina sul lago: l’anticipazione mi gonfia il cuore tanto da farmi male.
Ci stiamo riprendendo la nostra storia a partire da qui, la casa delle donne della mia famiglia, dove scorrazzavo nelle estati dell’infanzia, lontana dalla pozza di silenzio e assenza che è stata la mia vita fin qui.
Nei giorni indaffarati di pulizia e restauro, Matteo è rimasto segregato nella stanza da lavoro della nonna: uno spazio rivolto alla montagna con due finestrelle tonde, come grandi oblò, i muri di cemento liscio e un enorme camino al centro della parete.
Sta lì, per ore, seduto a gambe incrociate sul pavimento. Ha abbandonato il suo iPod, è immobile, rapito da quella parete scrostata e dal camino che lo sovrasta come un urlo sdentato. Mentre gli operai si muovono nel casolare riempiendolo fino a farlo sembrare angusto, mi rifugio sempre più spesso nella stanza da lavoro, seduta accanto a Matteo.
Smetto di parlargli e di cercare una scusa per stare con lui, semplicemente lo raggiungo e mi concentro sulla parete, con gli oblò come occhi e la bocca spalancata del camino.
Restiamo lì silenziosi, uno di fianco all’altra.
In uno di questi pomeriggi pigri Matteo si alza, si avvicina ai campioni di vernice stipati nella stanza e li studia concentrato. Io attendo senza sapere cosa. Con una fluidità che non ha mai avuto, mio figlio apre i barattoli, infila le mani nella vernice e si dirige al muro.
Nelle ore seguenti lo vedo fare la spola tra i barattoli e la parete, tracciare con le mani curve oniriche, sfumare e riempire spazi con macchie selvagge di colori. In una eternità piccola decido che voglio essere totalmente in viaggio con Matteo, nel suo mondo. Al diavolo il mio.
Da quel momento sono passati tre giorni. Tre giorni intensi e faticosi. Non ci siamo detti una parola, abbiamo colorato la parete con le nostre mani e i pennelli che abbiamo rubato insieme alla squadra di operai. Eh sì, li abbiamo rubati insieme, io in avanscoperta e Matteo dietro di me, con lo sguardo inchiodato alle mie mani e l’ombra di un sorriso sulle labbra, per una volta partecipe. Pennelliamo e intingiamo mani nella vernice, so che Matteo ha in mente un disegno, lui dirige, io lo seguo con lo sguardo inchiodato alle sue mani.
Guardo lui, non vedo il disegno sul muro, non mi importa, scelgo di farmi guidare da mio figlio. A lavori completati, soli nel casolare, siamo così concentrati sul nostro lavoro, punteggiando piccole macchie di rosa, che stento a percepire il tocco leggero della mano di Matteo sulla mia. Lui, che rifugge ogni contatto fisico, mi accarezza il dorso della mano e, guardandomi, mi comunica che devo essere più leggera, che vuole un colore meno definito.
L’orgoglio per un figlio che si laurea, che esce felice dal suo primo giorno di scuola, che chiama “mamma” per la prima volta: io l’ho sentito tutto qui e ora, in quel contatto che mi ha invaso, mentre il cuore mi è tracimato dagli occhi, incontenibile.
Col tempo il murale si è definito, la stanza da lavoro è diventata la “stanza del dipinto”, noi siamo più tranquilli e vicini. Ogni sera Matteo si sdraia nel suo letto, guarda dalla finestra l'esigua manciata di stelle nel cielo, tra le cime delle montagne che si abbracciano per la notte, mentre mi ascolta raccontare storie di draghi di lago, o di gnomi che vivono avventure tra i monti.
Poi, ancora una svolta: nella serenità pigra della nostra nuova vita, suo padre arriva al casolare. Non è qui per incontrarci, deve portare i documenti per vendere la casa di città, quella della nostra vita precedente. Non lo sentiamo neppure entrare, ci trova con le mani sulla parete, immersi nei colori.
Resta immobilizzato dallo sconcerto nel cogliere l’insieme del disegno: un bosco invaso dalla vegetazione, tre aceri deformati, il groviglio incolto di un glicine, in mezzo, avvolta attorno al camino, la bellissima magnolia rosa, carica di foglie scure e lucide, narcisi tenaci che si fanno spazio attorno alle finestre tra l'armatura spinosa di rose rampicanti.
Noi guardiamo l’uomo sulla soglia quando Matteo allunga la sua mano verso di lui.
Marco ha gli occhi terrorizzati, le labbra tremano, tuttavia la mano è ferma quando afferra quella di nostro figlio, si tuffa nella vernice e, ridendo, la appoggia al muro.
Siamo tre anime sperse in un bosco che scelgono di costruire