"C'è una porta nel mondo dei bambini da cui si intravede l'universo, un mondo immacolato fatto di generosità e sorprese. Non è facile trovare la chiave di questa apertura incantata, ma una volta avuta non si perde più. Basta un solo giro nella toppa ed ecco apparire come per magia tutto ciò che abbiamo sognato, tutto ciò che abbiamo desiderato, sia esso fatto di marzapane, di fiabe o di note. E rimani lì incantato, intrappolato e nascosto, mentre invecchi, dietro un albero a guardare. Già, perché ovviamente quel luogo assomiglia a ciò che di più bello s'intende per prato, raggiunto da tanti piccoli cuori puri e giocondi”. Maestra Modestina.
Avevo appena 8 anni e avevo finito di frequentare la seconda classe elementare. L'estate appena nata mi attirava a sé in corse, risate, giochi all'aria aperta fin dopo l'imbrunire. Lei si chiamava Modestina e in quella prima lezione mi fece disegnare la mia mano sinistra seguendone i contorni e poi, sulla sagoma che comparve sul foglio, scrisse i nomi delle note dei righi sulle dita, e i nomi delle note degli spazi tra un dito e l'altro. Io la guardavo stupito e incuriosito, non capendo cosa stesse facendo. Allora lei disse, lentamente e scandendo le parole che uscivano dalle sue labbra, e anch'esse si muovevano lentamente marcando ogni sillaba: “Ec-co, ve-di? O-ra pos-sie-di il pen-ta-gram-ma mu-si-ca-le in u-na ma-no!” E poi aggiunse: “Fan-ne bu-on u-so!” Modestina divenne la mia maestra di musica. La vedevo ogni giorno e in ogni momento libero desideravo correre da lei.
Mi piaceva lei e la musica.
Imparai prima la lettura rapida delle note e poi il solfeggio. In meno di 6 mesi sapevo suonare il violino. Modestina diceva che ero un portento. Che per me era facile imparare. E per lei era facile insegnarmi. Tutti quegli studi sulle 4 corde a volte erano noiosi, ma quando riuscivo a trovare l'intonazione giusta, il suono rotondo, la nota che per ore avevo cercato, e che ora era lì nelle mie dita, l'accordo o la melodia provate a ripetizione... ahhh!!! Allora esultavo e nessuna fatica mi era avversaria, tantomeno vittoriosa!
Nel giro di un anno suonavo Tartini e improvvisavo abbellimenti, cadenze, settimine, virtuosismi degni di un Paganini e quant'altro previsto e non nella storia del violino.
Quando compii 9 anni la maestra di musica mi regalò un violino nuovo, arrivava dai maestri liutai Stradivari di Cremona direttamente per me, costruito sulle mie misure di bambino che ancora giocava con le macchinine e a nascondino, ma che aveva nella testa il Trillo del Diavolo e che sognava il teatro della Scala di Milano, la Fenice di Venezia, ma soprattutto la Chiesa della Rotonda del suo paese. E lì si vedeva già col vestito scuro da concerto eseguire, in una platea gremita, i brani più belli, importanti e ricercati. Mia madre mi regalò un piccolo cuscino di velluto rosso scuro che aveva confezionato con le sue mani e che si appoggiava alla mentoniera per evitare l'arrossamento nelle ore di studio.
I miei compagni mi avevano regalato una miniatura di un archetto dorato e mi dissero che un giorno avrei avuto come riconoscimento per la mia bravura, da qualche re o imperatore di un qualche paese esotico, un violino tutto d'oro incastonato di pietre preziose. E lo dissero seri e convinti! Ma poi risero! Anche la torta era a forma di violino e aveva una striscia di marzapane con il pentagramma e le note di cioccolato disegnate sopra. Eravamo tutti allegri e felici.
Un giorno arrivò una notizia. Modestina, che aveva un'accademia di musica e altri allievi, era stata invitata a partecipare con le sue scuole di violino, pianoforte e danza, ad un concorso al teatro della provincia. Ero molto emozionato. Non credevo che la mia maestra avesse pensato a me ma ci speravo. Pensavo che la musica non dovesse rimanere dentro di me, ma che dovesse uscire fuori, come fa la voce quando parliamo e vogliamo dire o chiedere qualcosa. Come fanno le lacrime quando soffriamo, come fa il nostro volto quando mostra un'espressione che ha un significato aldilà delle parole, come fa il nostro sorriso quando illumina tutta la faccia di gioia, come fa un neonato quando piange perché ha fame o mal di pancia e vuole farlo capire. Io volevo mostrare la mia musica, quella che stava dentro me, volevo far sentire la mia musica, volevo farla uscire, volevo comunicare la musica e ciò che io sentivo per lei e per il mondo. E volevo che il mondo la sentisse, col cuore e con l'anima, oltre e prima che con le orecchie.
Modestina mi diceva sempre che la musica è un'arte strana, che tra tutte si distingue per una particolarità. Mentre nella scultura, nella pittura, nella poesia, ciò che è scolpito, dipinto, scritto, rimane uguale, definito una volta compiuto, nella musica tutto è in divenire, pur nella partitura scritta, ogni volta sarà diversa, l'esecuzione di ogni interprete e di ogni replica sarà disuguale, originale, sarà individualità particolare, diversa e personificata. E mentre tutto se ne andrà nell'aria, non se ne avrà traccia, ripetizione, storia, si potrà di essa solo goderne le sensazioni uniche e irripetibili.
Arrivò la sera in cui dovevo esibirmi al concorso. Eravamo in 19. Ero grato alla mia maestra di avermi regalato quell'occasione. Domani avrei compiuto 10 anni e stasera avevo l'adrenalina che mi percorreva a mille! L'emozione era palpabile nell'aria. Ero il 17esimo a suonare. “Chissà se mi avrebbe portato fortuna”, pensai, io ero nato il 17 e oggi era il 16. Alex, il mio migliore amico era in prima fila con tutta la sua famiglia.
C'erano tutti ad ascoltarmi. Mia mamma, i miei fratelli, i miei cugini, i miei nonni, i miei compagni di scuola, persino i vicini. Tutti sapevano quanto ci tenessi e amassi la musica.
Non mancava nessuno. C'era anche il mio adorato papà. Solo che mi guardava da lassù.
Ma si sa, l'acustica è migliore quando la musica si ascolta da lontano. E mio papà ne sapeva qualcosa perché era stato un direttore d'orchestra, e io ero fiero di lui e conoscevo tutti i suoi dischi. Modestina mi chiamò e mi dette le ultime raccomandazioni. Io le seguii anche se l'emozione era alle stelle. Tuttavia seppi già allora trovare la determinazione e il controllo che servono per domarla e incanalarla, in modo che anch'essa fosse al servizio della bellezza dell'arte della musica. Suonai accompagnato al pianoforte da Maddalena, una bambina di un anno più grande di me che frequentava la scuola di musica da 3 anni.
Non arrivammo primi, ma secondi, e la gioia fu anche maggiore, perché c'era tempo per la perfezione e per studiare ancora e vincere altri secondi posti e poi il primo. Per l'ambizione verso i migliori risultati e per l'umiltà di lavorare con impegno.Tornammo a casa ebbri e con le braccia colme di cioccolatini, caramelle, emozioni, complimenti, carezze, baci... e di una bella coppa con su i nostri nomi: il mio, Enrico, e di Maddalena!
Anche stasera per me essere qui è una grande emozione, come sempre. Stento ogni volta a riconoscere il mio nome sul frontespizio della brossure che ha impresso il programma del concerto coi brani più tradizionali per violino e pianoforte, come piaceva a mia madre, e che eseguiremo stasera nella chiesa della Rotonda in occasione della vigilia di Natale. Per lei non doveva mai mancare Brahms e Mozart ma mi apprezzava anche quando suonavo Sarasate e Nolck perché mi conosceva e sapeva la mia predilezione per l'originale, l'inconsueto, che sorprende, sperimenta, esplora, o per meglio dire conosceva la mia indole ribelle, per niente conservatrice, da vagabondo errante e a volte di apolide.
Quei tempi e il diploma del Conservatorio sono lontani, ma non l'entusiasmo e l'essenza che mi condussero sul sentiero della musica che ancora percorro, e che mi inoltrarono nel suo mondo fantastico e spettacolare. Come sempre c'è mia moglie Maddalena ad accompagnarmi al pianoforte, ed è una garanzia, una certezza nella mia vita e nella musica, dolce ma innovatrice anche lei. E come sempre mi aspetto di vedere lì seduta in prima fila la mia maestra di musica. Severa ma mai altera, raffinata ma mai irraggiungibile, imparziale ma mai inclemente, né mancante a sciogliersi in note di affetto e calore.
Ma da stavolta non ci sarà. E non ci sarà neanche per i prossimi concerti della stagione. Perché lei se n'è andata 7 giorni fa. Ha raggiunto quelle sale da concerto celesti, sempre illuminate, radiose, piene di armonia, dove potrà insegnare a tanti bambini che saranno per sempre bambini, come fece con me, la bellezza eterna e sorprendente, mai scontata della musica.
Domani io prenderò il suo posto alla scuola di musica come insegnante di violino. Mi ha fatto l'onore di regalarmi la sua scuola. Lei era la mia maestra. E aveva compiuto il miracolo in me. Era entrata nel mio mondo di bambino. Aveva avuto non una chiave ma l'intero setticlavio. Ossia tutte le 7 chiavi che lo compongono, tanto per usare una metafora. Ma la più importante chiave lei l'aveva trovata dentro di sé. La custodiva già in sé. La conosceva come nessuno. Lei sapeva che non era facile insegnare la musica a me. Già, ci sarebbero volute almeno altre 7 chiavi, e lei le trovò tutte, anzi le aveva tutte.
Perché io ero un bambino speciale. Ero un bambino sordo. Io sono nato sordo. E oggi sono un violinista. Bravo e amato. L'essere sordo è solo un dettaglio. E lo devo a lei.
Anche lei lo era. Una violinista. Brava e amata. E una persona sorda come me. Lei mi ha insegnato tutto ciò che sapeva. Tutto quello che aveva imparato. Dentro di sé. Perché non è sempre facile. E nel mondo. Perché non è sempre bello. Lei mi ha insegnato il vero valore della frase consumata sulla musica come linguaggio universale, oltre ogni barriera, le lingue e le distanze. Perché per noi la sordità non era una barriera ma un legame.
L'unione, la condivisione. L'emblema dell'universalità. Lei mi ha insegnato a conoscere e a sentire la musica con le orecchie del cuore e dell'anima. Lei era la mia maestra di musica.
Conservo ancora gelosamente nel mio cassetto personale quel piccolo cuscino di velluto rosso scuro che confezionò per me e che mi regalò al mio nono compleanno.
Lei, Modestina, era mia madre.