Il cono di carta gialla, colmo di patatine appena fritte, scottava fra le sue dita sporcandole di olio ancora caldo, ma Lorenzo non se ne preoccupava. Anzi, il tepore di quel cibo di strada nelle mani gli donava un poco di conforto dal freddo dell’inverno. Rabbrividì e avvicinò il cartoccetto al viso, per godere, almeno per un attimo, del suo calore sulle guance. Alzò lo sguardo. L’Atomium quasi si confondeva contro il cielo scuro, gonfio della prima nevicata della stagione che, sicuramente, sarebbe giunta di lì a poco. Lorenzo assaporò una patatina: non era riuscito a resistere, anche se quello spuntino fuori programma gli avrebbe permesso di depositare meno soldi del solito nel suo barattolo segreto. Il freddo, però, era stato più forte della volontà.
Si incamminò verso casa, cercando di affrettare il passo il più possibile, per scaldarsi almeno un poco. Prendere l’autobus sarebbe stato un lusso eccessivo, per un umile lavapiatti come lui. Del resto, si disse, poteva considerarsi fortunato: molti suoi conterranei, all’arrivo in Belgio, non avevano trovato altro che un lavoro da minatori, al confronto con il quale il ristorante di infima categoria nel quale passava le sue giornate poteva essere equiparato a una vera e propria reggia. Ciò nonostante, ancora una volta il cuore gli si strinse, mentre percorreva le strade del centro piene di luci e di borghesi con il portafoglio pieno. Non provava invidia per i loro bei vestiti e per la loro aria curata, ma li guardava con le lacrime agli occhi, sapendo che il più grande lusso che potevano permettersi era quello di continuare a vivere senza problemi, tranquilli e indisturbati, nella loro città Natale. “Bruxelles,” pensò, una volta di più, “perdonami. Mi hai dato lavoro e speranza, e di questo ti ringrazio, ma non sei la mia Firenze!”
Lo sguardo gli si appannò, come sempre gli succedeva, nel preciso momento in cui il suo cuore pronunciò il nome della sua città. Con l’anima a pezzi, proseguì la sua camminata nell’illusione di poter scorgere, dietro a ogni angolo, la snella figura di Palazzo Vecchio, o l’imponente cupola di Santa Maria del Fiore, colorata come la crinolina di una damigella del secolo precedente. Che cosa non avrebbe pagato per poter infondere, a quelle patatine che stava mangiucchiando, almeno un vago sapore di bistecca, o per poter entrare in un forno e ordinare un soffice pezzo di schiacciata alla fiorentina! Quanto gli mancavano il profumo degli iris, il fragore delle feste folcloristiche, i colori degli sbandieratori nelle piazze! Ma, soprattutto, quanto gli mancava quel moderno palazzo di periferia, dove aveva lasciato i suoi amici, la zia preferita e quella ragazzina che ogni giorno vedeva dal balcone, ma che non aveva mai avuto il coraggio di salutare. Al ripensarci, un nodo gli si creò in gola, ma gli bastò spostare il pensiero sul suo barattolo segreto per trarne conforto e positività. Pochi spiccioli al giorno, rosicchiati dal suo modesto pranzo: era tutto quello che poteva fare, ma, con un poco di pazienza, avrebbe raggiunto presto il suo scopo. Avrebbe fatto una sorpresa ai suoi genitori, mostrando loro tre biglietti per il treno da Bruxelles a Firenze. Certo, si sarebbero potuti permettere solo pochi giorni, ma la gioia di tutti nel rivedere la loro città sarebbe stata impagabile. Peccato solo per l’imprevisto di quella fredda giornata, che aveva rallentato di un giorno il suo piano: non avrebbe mai più ceduto a simili tentazioni, si ripromise Lorenzo.
Mentre calcolava, per l’ennesima volta, la cifra che ancora mancava alla realizzazione del suo sogno, passò davanti a un bar. Lo conosceva bene per averci trascorso qualche serata con gli amici, davanti alle partite di calcio: era uno di quei bar moderni che potevano vantare un apparecchio televisivo, cosa che, in quel 1966, non era ancora estremamente diffusa. Gettando uno sguardo all’interno del locale, Lorenzo notò una nutrita folla davanti all’apparecchio. Strano: non era né il giorno né l’ora deputata per il pallone. Gli avventori fissavano lo schermo televisivo in silenzio, nell’immobilità più totale, e Lorenzo sentì lungo la schiena uno strano brivido, che nulla aveva a che vedere con il freddo. Entrò, cercando di individuare, fra le immagini grigie e confuse che uscivano dal televisore, l’oggetto di tanta muta attenzione. Non vide altro che acqua: un’esondazione, a quanto pareva. Si rivolse al barista, che continuava a lavare mestamente bicchieri lanciando, di quando in quando, un’occhiata allo schermo. “Qu’est-ce qui se passe?”
L’uomo si bloccò per un attimo, poi emise un soffio. “Florence…”
A Lorenzo sembrò che l’acqua che vedeva ridondare dallo schermo avesse sommerso, in una frazione di secondo, il suo cuore. Provò a sperare di avere capito male, ma fu un attimo: nel televisore apparve, come un’isola indifesa in un mare in burrasca, la Chiesa di Santa Croce.
Non seppe mai quanto tempo avesse passato dentro a quel bar, a fissare lo schermo nella più totale, impotente disperazione. Quando, però, ne uscì, aveva già preso la sua decisione. I suoi genitori avrebbero dovuto aspettare, e accontentarsi di una vaga scusa su di un periodo di sostituzione nell’altro ristorante del suo datore di lavoro, a Bruges. Qualche spicciolo per telefonargli: avrebbe capito, era un immigrato come lui. Per il viaggio avrebbe dovuto usare i fondi del barattolo segreto, che chissà quando avrebbe potuto reintegrare: non importava. Firenze aveva bisogno di lui.
La pioggia battente sferzava i vetri del treno, mentre Lorenzo, solo nello scompartimento, guardava fuori con la testa appoggiata sul braccio. Non riusciva a dormire, strangolato da un misto di eccitazione e paura. Certo, non era quello il modo in cui aveva sempre immaginato il suo ritorno nella sua città, ma sapeva che piangere, urlare o imprecare non gli sarebbe servito a niente. Era il momento di agire, anche se ancora non si immaginava bene come.
Fu uno scenario di guerra quello che gli si presentò davanti quando uscì dalla stazione di Santa Maria Novella. Si fece strada nel fango che gli gelava i piedi, provando più volte l’impulso di tenere lo sguardo basso per non cedere alla disperazione nel vedere quella sua bellissima città, che più volte aveva paragonato a un fiore, a un ricamo, violentata da quella massa informe vomitata dal suo fiume, da quell’Arno che amava tanto. Si sentì come un figlio che torna a trovare l’anziano padre solo perché ha saputo che una grave malattia sta ormai mangiando i suoi giorni. Continuò a vagare, in preda alla peggiore sensazione di impotenza che avesse mai provato, fino a che non si trovò davanti alla Biblioteca Nazionale. In cima alla scala, un uomo avvolto in una specie di tuta grigioverde, pallido, con l’aria di chi non dorme da giorni, sembrava piantonare l’edificio. Lorenzo si diresse istintivamente verso di lui, e qualcosa nel suo aspetto o nel suo comportamento fece sì che l’altro si illuminasse. “Un altro angelo! Sia ringraziato il cielo!” esclamò, prima di rivolgerglisi in una strana lingua stentata. “Thank you, merci, you here, good! We save books, livres, you understand?” Lorenzo avrebbe potuto rivelarsi, ma gli sarebbe sembrato di togliere tempo prezioso alla sua missione, alla sua Firenze così duramente ferita. Si limitò ad annuire, e a seguire l’uomo dentro la biblioteca. “Datemi un altro paio di stivali: questo poveretto non è attrezzato.” Lorenzo tacque, affiancandosi agli altri e imitandoli, mentre sollevavano i volumi dal pavimento fangoso e cercavano, delicatamente, di dare loro una prima, grossolana pulita. Una bella ragazza bionda, con un sorriso dolce, gli disse qualcosa in una lingua che non conosceva. Lorenzo scosse la testa sorridendo a sua volta, poi abbassò la testa e riprese il lavoro appena iniziato. Non c’era tempo per cercare di capirsi, non c’era tempo neppure per parlare: era Firenze, in quel momento, che occupava ogni angolo della sua mente. Firenze ferita. Firenze che aveva bisogno di aiuto.
Tra giorni chino nel fango, notti disteso per terra ai piani superiori e pause di dieci minuti per addentare un panino, Lorenzo perse la nozione del tempo. Fu solo osservando casualmente le tacchette annotate sul calendario che realizzò di avere già esaurito i giorni che gli erano stati consentiti: doveva prendere subito il treno per tornare in Belgio, al suo lavoro. Nell’istante in cui se ne rese conto, sentì uno dei responsabili dire agli altri: “Questi ragazzi hanno fatto davvero un ottimo lavoro. Non so quali perdite, sicuramente ben più ingenti, avremmo avuto, se non fosse stato per loro. Voglio conoscerli e ringraziarli uno a uno: convocateli nella sala principale.”
No, non c’era tempo. Lorenzo cercò una via di scampo, e la trovò in una porta aperta. In un attimo fu fuori, e iniziò a correre verso la stazione. I suoi piedi, finalmente, rumoreggiavano sul selciato della sua città, quasi libera dal fango. Arrivò a Santa Maria Novella trafelato. Cercò un tabellone, non lo trovò. Fermò un ferroviere. “Il treno per Bruxelles, per favore?” Quello scosse la testa. “Le train pour Bruxelles, S’il Vous Plaît!” Al suono della lingua familiare, quello annuì, ed indicò un convoglio in partenza, quattro binari più avanti. Lorenzo raccolse tutte le sue forze in uno scatto, raggiunse il binario e riuscì, con un ultimo sforzo, a saltare sopra il treno inseguito dal fischio del capostazione.
Soltanto dieci minuti più tardi, i responsabili della Biblioteca si stavano chiedendo dove mai si fosse cacciato quel ragazzo tranquillo, taciturno ma sorridente, che per giorni e giorni non si era risparmiato senza che mai una parola uscisse dalla sua bocca. Chissà da dove veniva, di che nazionalità era, che cosa lo aveva spinto a sacrificare tempo ed energia per Firenze. Chissà se mai avrebbero avuto occasione di dirgli grazie.
Lorenzo, però, non voleva essere ringraziato. Seduto nello scompartimento semivuoto, si era addormentato, sognando una Firenze piena di sole, rinata dal fango della sua stessa ferita. Non sapeva se e quando avrebbe potuto rivederla: il barattolo segreto, adesso, era vuoto, e ci avrebbe messo del tempo a riempirsi nuovamente. Ma non importava: mai come in quel momento, attraverso il proprio gesto, si era sentito così indissolubilmente legato alla sua città. “Tornerò, Firenze” disse, nel sogno. “Firenze mia.” E sottolineò “mia”.