Percorro da cinque anni lo stesso sentiero nel bosco. D'inverno il ghiaccio, in primavera le primule, autunno con l'erica, d'estate al riparo dal sole, more e lamponi.
Gli abeti proteggono dalla luce, la penombra mi avvolge come un manto.
Non mi piace il sole, mi fa chiudere gli occhi.
Giunta a destinazione, ogni lunedì pomeriggio siedo sulla solita pietra, con il viso tra le mani, gli avambracci appoggiati sulle cosce, mi addormento.
Il sonno mi imprigiona. Dimentico il mondo.
Non sogno mai, a volte mi sveglio piangendo, altre rido.
Poi, torno a casa.
Abito una catapecchia di legno e lamiera che i cacciatori usavano come riparo. In inglese mi chiamano homeless, suona bene, sembra qualcosa di importante; in Italia sono semplicemente una barbona.
Il destino, la mia destinazione.
Il martedì colgo fiori, anche solo i rami sempreverdi degli abeti.
Poi, torno a casa. Appeso al muro un calendario. L'unica cosa del tempo che cambio ogni anno.
Il mercoledì li metto in un vaso rubato al cimitero del paese dove prendo ciò che voglio.
Sta bene il vaso in mezzo al basso cespuglio di erica. Lo guardo, sogno. A occhi aperti.
Il giovedì tutto diventa più difficile. Vorrei solo dormire. Rimanere supina, immobile.
Potessi smettere di respirare...
Ogni giovedì rimango sdraiata fino alle tre del pomeriggio. Silenzio, solo il rumore dell'aria che entra e esce dai polmoni.
Devo alzarmi, raggiungere la mia destinazione.
Siedo sul letto, lavo il viso con l'acqua della bacinella che ho preparato sulla sedia la sera del mercoledì.
Non mi asciugo, lascio che quelle lacrime d'acqua bagnino i miei stracci.
Mischio lacrime vere. Sono in piedi.
Mi chiamo Angela. Non mi piace questo nome.
Verso mezzo bicchiere di grappa, lo bevo d'un fiato.
Mi scuoto, prego.
Tutti i giovedì da cinque anni.
Le preghiere che diceva mia madre, l'angelo custode, il Pater Noster in latino.
Ma oramai non credo più.
Venerdì è il giorno libero. Non raggiungo la mia destinazione. Vado a pescare, mi lavo, canto, dormo, sogno… con gli occhi chiusi.
E penso.
La mente mi inganna.
Sabato. La trasformazione. Mentre percorro il solito sentiero nel bosco, il cuore palpita, il respiro è affannoso, mi sento un mostro con la bava alla bocca, gli occhi iniettati di sangue. Devono uccidermi, perché non faccia male a qualcuno. Ma nessuno ha il coraggio di farlo.
Sembro una bestia incatenata, la rabbia sconvolge i tratti del mio viso, il cuore cambia forma.
La mente non ragiona, sragiona.
Le mani cercano qualcosa a cui attaccarsi, un bastone, per sostenere, per non commettere atti impuri.
Ma il sesso non c'entra.
Non dormo il sabato. Posso solo ululare come un lupo affamato. Non ho occhi, ma due fessure di fuoco. Non torno nella catapecchia, rimango in quel luogo, legata dal destino.
Tremo di freddo, disperazione.
Domenica:" Santificare il giorno del Signore". E perché dovrei?
Domenica. Prendo il bastone, con violenza inaudita lo faccio roteare, movimenti potenti.
Colpisco, colpisco quell'uomo di spalle, più volte, senza pietà, né paura, con odio.
Lui mi ha tolto il suo amore.
Lunedì. Sporca di sangue, spossata, tremante, mi siedo sulla solita pietra. Con il viso tra le mani, gli avambracci appoggiati sulle cosce, mi addormento.