Emozioni a tavola di Sandro Simoncini - Bornoincontra

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Emozioni a tavola di Sandro Simoncini

Premio Letterario
 
"Kali orexi, agapi mou! (Buon appetito, amore mio!)"
di Sandro Simoncini
Menzione speciale della giuria - Edizione 2015


 
 
Elefethrios Kotsopoulos rientrò in casa e posò la lettera ancora sigillata sul tavolo. Le diede un'occhiata di sbieco ma non l'apri riponendola infine sulla piccola credenza celeste, a fianco delle fotografie degli avi e dei figli lontani. Fuori faceva gran caldo, il cielo e il mare di Creta apparivano d'un azzurro assoluto, come in cartolina. Versò il caffè dalla vecchia cuccuma ammaccata e lasciò che l'aroma si diffondesse nella stanza, prima di berlo. L'operazione avrebbe richiesto almeno una ventina di minuti a sorsi minuscoli, secondo un rituale consolidato, prima di vedere la polvere scura depositata sul fondo della tazzina, vero elogio alla lentezza.
Era nato sull'isola settant'anni prima e dopo aver vagato per i porti del Pireo e del Mediterraneo era riuscito a ritornare nella sua Irapetra, per trascorrere la pensione insieme alla moglie. La donna si chiamava Antygoni, nome forte, evocativo, che rimandava perfettamente al suo temperamento epico. Ebbero la fortuna di vivere un matrimonio felice. Il loro amore superò indenne il tempo, le distanze e i distacchi, dovuti agli imbarchi dell'uomo di casa. L'unione fu benedetta dalla nascita di due figli i quali però, per necessità, abitavano ormai lontano: il primo, Nikandros, presso Atene e Zenas, il minore, addirittura a Monaco, in Germania. Avevano trovato lavoro e costruito le loro belle famiglie, ma con tutti quei chilometri di mezzo, i nipoti vedevano raramente i nonni. D'altra parte Elefethrios e Antygoni erano abituati ad aspettare, seppur contro voglia si erano allenati tutta la vita.
L'uomo uscì fuori col suo caffè. Si era accorto che, nel piccolo, stava intralciando i preparativi della moglie, la quale spadellava e imbandiva la tavola tra cucina e pergolato. Si mise dunque a sedere sulla panca e osservare il mare, con la tazzina fumante tra le mani. Coi risparmi di una vita, dopo aver aiutato i figli a sistemarsi, era riuscito ad acquistare quella casetta solitaria, a picco sulla baia di Stymio. La osservava estasiato fin da piccolo. Sapeva appartenesse a gente emigrata in Europa, che non se ne curava. Quando poteva, si preoccupava almeno di liberarla dalle erbacce e potare la vite. Aveva giurato a se stesso che nel corso della vita, se fosse filato tutto per il verso giusto, quell'angolo di paradiso sospeso tra mare e cielo, sarebbe divenuto il rifugio della propria vecchiaia. Come per incanto, il sogno si avverò ed ora, non solo sorseggiava il caffè all'ombra del suo pergolato, ma si sentiva in paradiso. Sedeva circondato da un tripudio di fiori colorati: ibischi variopinti, enormi gerani, rampicanti, piante grasse che egli stesso curava, ogni giorno, con amore. Allo stesso modo, nell'orto assolato dietro casa, da buon Eden qual'era, cresceva ogni ben di Dio. Pomodori grossi e sodi come meloni e, di rimando, meloni che parevano angurie. Zucchine, melanzane, peperoni, pomodori, lucidi e tronfi nelle loro livree colorate, crescevano a dismisura, oltrepassando per dispetto il muro di confine. Elefethrios, in cuor suo, benediceva ogni giorno per la grazia ricevuta. Con quel mare, un cielo simile e una natura così generosa, sarebbe bastato nutrirsi con gli occhi, anziché il palato.
Adesso però era necessario ridestarsi dalla contemplazione, il profumo pungente dei soffritti aveva scacciato con prepotenza, anzitempo, l'aroma del caffè. Sul tavolo in pietra della veranda, imbandito con una tovaglia di lino a quadri bianchi e azzurri, era apparecchiato accuratamente per due.
Quel giorno, il vecchio marinaio, aveva espresso una richiesta speciale. Per pranzo avrebbe voluto gustare le sue pietanze preferite, quelle che fin da bambino gli mettevano l'acquolina in bocca, ma non sempre si potevano avere. Non proveniva da una famiglia indigente, ma l'abbondanza era un'altra cosa. Lungo la vita lavorativa, la frequentazione delle mense di pescherecci e mercantili non suscitava grandi nostalgie, gli addetti alla cucina meritavano raramente il titolo di "cuoco'. Giunto il mezzogiorno, col sole più alto e infuocato e le cicale impazzite che spingevano il volume al massimo, anche l'ultimo refolo di brezza, cessò. Sulla porta della veranda comparve Antygoni la quale, togliendo il grembiule con gesto teatrale, annunciò sorridendo: "è pronto!". Appariva sempre fiera e ancora bella, i suoi occhi verde mare, incorniciati dal viso scuro, sapevano d'oriente e di mistero. Invitò il marito a sedersi a capotavola ed egli obbedì, compiaciuto. Dopo aver ringraziato, rispose come al solito: Kali orexi, agapi mou! (Buon appetito, amore mio!). Nell'aria calda aleggiava un profumo inebriante di spezie. Elefethrios aveva ricevuto unicamente l'incarico di preparare il vino bianco. Lo servì da una brocca, talmente fresco da imperlare i bicchieri di gocce gelate. Brindarono guardandosi negli occhi, con la complicità di due giovani innamorati. Con il sorriso e finta indignazione la donna respinse il tentativo d'esser stretta e baciata. Poi tornò sui suoi passi e le labbra unite schioccarono un bacio sonoro "al vino bianco".
Quindi ebbe inizio il pranzo, messo in scena magistralmente in un trionfo di portate, gustose e colorate. Nemmeno la migliore taverna dell'isola avrebbe potuto fare di meglio. Antygoni non sapeva la ragione di tale richiesta, ma non le costava nulla esaudire il desiderio del suo uomo. Conosceva i suoi gusti, non fu difficile organizzare il menù perfetto. Anzitutto approdarono in tavola crostini di pane nero tostato, spalmati con salsa Tzatziki a base di yogurt, cetrioli e aglio. Tale crema, dal gusto deciso e inconfondibile, risultava il tipico accompagnamento di molti piatti della cucina greca, come la "pita con giro" (piadina locale con carne arrosto). Ironizzando sugli effetti dell'aglio, la coppia ne esorcizzò gli effluvi con un ulteriore bacio, lungo e appassionato. Per non lasciare soli i crostini salati apparvero piccoli turbanti dorati in crosta di pane, allineati sopra un vassoietto. Erano i Soutzovkakia, sorta di rustici salati ma cosparsi di miele, tipici dell'isola, originari della Turchia e di Costantinopoli.
Ora però il caldo andava contrastato, al fine di gustare il resto del pasto. Venne quindi servita come entrée l'insalata Horiatiki, vera regina della cucina nazionale. In quel miscuglio geniale si univano le verdure coltivate nell'orto domestico: pomodori, cetrioli, cipolle e le pregiate olive nere Kalamata, che maturavano sui vecchi ulivi intorno a casa. A condimento: olio d'oliva, sale, origano e, ovviamente, una fetta spessa di formaggio fresco (appunto, la Feta) bianco e famoso come il Partenone. Antygoni impedì al marito di servirsi la seconda porzione, pur essendo leggera bisognava lasciare spazio almeno ad un assaggio di tutto il resto.
Giunse dunque il turno del piatto forte. Fecero spazio sul tavolo, preceduto da un aroma irresistibile apparve un tegame panciuto di coccio, coperto, ma ugualmente fumante. Elefethrios, con gesto cerimonioso delle sue mani ruvide, foggiate da una vita di lavoro in mare, lo scoperchiò. La Moussaka era il suo piatto preferito e la moglie lo preparava divinamente. Esistevano diverse versioni della pietanza, ma Antigoni la cucinava secondo la ricetta della madre, Zoe, originaria di Psyro, nella parte sud-est di Creta. Si trattava di un'area incantevole: un vasto altipiano verdeggiante, interamente coltivato, disseminato da una miriade di mulini a vento, secondo la tradizione, oltre un migliaio. Ritenuta il granaio e il verziere dell'isola, la cosiddetta "valle dei mulini" contrastava in modo evidente col resto del territorio, generalmente brullo ed arso. In quel luogo magico esisteva una grotta, denominata Dikteo Antron, nella quale la mitologia voleva che Rea avesse partorito nientemeno che Zeus, per salvarlo dal padre Kronos, pronto a divorarlo. II piccolo dio crebbe in segreto in quella grotta, allattato dalla capra Amaltea. Non fosse che si trattava del padre degli dei dell'Olympo, una curiosità del genere non troverebbe spazio quando si trattano argomenti di spessore, come la buona cucina. In ogni caso, sull'altipiano verdeggiante, la Moussaka veniva preparata con la variante delle patate tagliate a fette, che andavano ad affiancare l'altra verdura base del piatto, ovvero, le melanzane. La pietanza presentava tradizionalmente una superficie dall'aspetto neutro, praticamente uno strato morbido di formaggio. Ma non appena si scavava al disotto, emergevano gli strati roventi e gustosi di patate, melanzane, pomodoro, cipolla, prezzemolo e macinato di manzo, tutto amalgamato dalla lunga cottura e dagli aromi di spezie, quali: pepe, cannella e cumino. La squisitezza del piatto, che divorarono sino a vedere il fondo del tegame, venne celebrata con un brindisi a base di Assyrtico, il vino bianco secco tipico dell'isola.
A quel punto, non poté mancare un contributo sortito dal mare generoso che avevano innanzi agli occhi ed aveva accompagnato ogni giorno della loro esistenza. Serviti con sapienza da Antygoni, adagiati entro una teglia di terracotta, stavano allineati una mezza dozzina di Yemisto Kalamari. Si trattava di grossi calamari ripieni, pescati nel Mar Libico e cucinati secondo una ricetta semplice e gustosa. La farcitura, costituita da riso, cipolle e pomodori, insaporita da prezzemolo, aneto, sale e zucchero, traboccava regolarmente dagli involtini rigonfi, pertanto doveva essere trattenuta infilzando uno stecchino sull'apertura. II vecchio marinaio, con un filo di nostalgia negli occhi per il tempo andato, rammentava che i migliori calamari Yemisto li gustava in una piccola taverna di Izmir, sulla costa turca del Mar Egeo. Tenne comunque a precisare che nemmeno lontanamente avrebbero retto il confronto con la bontà di quelli cucinati dall'adorata mogliettina. Ne divisero tre ciascuno, il profumo intenso di pescato, cucinato col soffritto, inondò completamente l'atmosfera. Seguirono altri sorsi di vino bianco freschissimo e baci complici sospesi nell'aria. Insieme ai calamari era giunto un piatto di ceramica variopinto sul quale facevano bella mostra i Dolmades. Un tipico pranzo cretese non poteva dirsi tale se non prevedeva almeno un assaggio di questi singolari involtini. Confezionati curiosamente con foglie di vite, modellati a parallelepipedo, ripieni di riso e aromatizzati con l'erba menta, una volta cucinati venivano allineati con precisione sul piatto di portata e serviti freddi. Essendo minuti e leggeri alla digestione, potevano precedere o accompagnare tutto il pasto. Certamente la loro forma, enigmatica e caratteristica, appariva irrinunciabile sulla tavola. Benché deliziosi, ne presero soltanto un paio a testa, giusto per rispettare la tradizione.
Di seguito, la scrupolosa Antygoni, non volle far mancare un piatto di terra, a base di carne. La scelta ricadde sulle Soutzoukakia Smyrneika, salsicce di bovino cotte nel sugo di pomodoro e aromatizzate al cumino. Elefethrios era originario di Tefel, un piccolo villaggio agricolo dell'interno e non perdeva occasione per ricordare che nei giorni di festa, in casa sua, non poteva mancare quel piatto dal profumo intenso, cucinato da sua madre fin dalla buonora. "Aftì i myrodià! Pós nóstimo!" che profumo! che bontà!, esclamava ogni volta alla loro vista, con gli occhi sognanti e il sorriso persi nel tempo.
A quel punto, benché entrambi dichiarassero di non poter più ingerire nemmeno un cappero, trovarono comunque spazio per qualche Baklava. Si trattava dei deliziosi dolcetti al miele con zucchero e frutta secca, originari della Turchia e diffusi ìn tutto il Medio Oriente, preparati secondo un'infinità di varianti. Antygoni colse il pretesto della digestione per accompagnare il dessert con una bottiglia di Raki, la potente acquavite locale. Seguirono dosi generose di caffè greco, il cui aroma deciso dichiarò ufficialmente concluse le amorevoli ostilità culinarie.
I due vecchi amanti si sedettero sull'ottomana in muratura all'aperto, ricoperta di drappi colorati, sazi di cibo e di passione. Col caffè fumante tra le mani, rimasero abbracciati serenamente a scrutare la vastità del mare e scambiarsi occhiate, immense e profonde come i suoi flutti. Poco dopo l'uomo esclamò: "Devo andare". La donna rispose: "Come... di già?", lui: "Sì, guarda l'ora, abbiamo fatto tardi... col nostro "pranzetto"..." . Antygoni annuì con il capo, sul viso apparve un sorriso dolce e triste. Elefethrios ricambiò con lo sguardo e la baciò sulla fronte. Quindi, senza dire una parola, passando dalla cucina prelevò la lettera sigillata dalla credenza e se la mise in tasca. Dunque, si avviò lentamente per la rampa di scale esterna, che passando per l'orto e i terrazzamenti d'uliveto, saliva alla strada carrozzabile. Aveva con sé una piccola borsa da viaggio. Lungo il breve tragitto sorgeva la chiesetta ortodossa di Aghios Nikolaos. ll piccolo edificio bianco dal tetto azzurro riluceva, sotto il sole infuocato del primo pomeriggio. Nel parcheggio sterrato sostava la sua utilitaria, modesta ma tenuta lucida come la chiglia di una barca, a dispetto della polvere di terra rossa che martoriava l'isola. Non trascurò di entrare nella cappella e recitare una preghiera. Poi accese una candela, sottile e affusolata, infilandola nel catino metallico riempito di sabbia, con funzione di piccolo altare. Ne era trascorsa di vita, ma non capiva ancora se credeva. Tuttavia, quel gesto intimo e semplice, lo rimetteva per qualche istante in pace con se stesso, con la natura e l'universo.
Fatto ciò, dopo essersi segnato più volte con la mano sinistra, come vuole il rito, uscì fuori. Si sedette sugli scalini, che in quel momento stavano provvidenzialmente rivolti all'ombra, ed estrasse la lettera. Strappò la busta e prese a leggere il contenuto. Le cicale, tutte intorno, parvero interrompere per qualche istante il loro frinire disperato, come a voler caricare ulteriormente l'istante di pathos. La lettura durò pochi attimi, dopodiché ripiegò il foglio e lo infilò nuovamente nella tasca. L'uomo scosse leggermente il capo accennando una smorfia, ma non appariva affranto per qualsivoglia ragione fosse riportata nella missiva. Raccolse la borsa e s'incamminò verso l'automobile.
Ormai ogni dettaglio era svelato. La lettera, proveniente dall'ospedale di Iraklion, non regalava molte speranze sulle possibilità di riuscita dell'intervento. D'altra parte, se li chiamavano "mali incurabili", esisteva una ragione. Ma lui era un uomo di mare, in vita ne aveva passate tante ed avrebbe affrontato con coraggio anche l'ennesima tempesta. Non sapeva se quella che aveva appena terminato fosse la sua ultima cena, ma di certo era stato un pasto superlativo.
Aveva la certezza dí avere avuto una vita fortunata e di essere stato amato, quello era "l'importante". Per il resto, pensò che qualunque cosa accadesse da quel momento in poi, tanto valeva affrontarla con lo stomaco pieno.
Ah... ho sentito qualcuno, nel corso della lettura, dubitare che in un orto così vicino al mare potessero crescere verdure e ortaggi tanto prelibati. Abbiate fede, vi assicuro che l'isola in cui nacque il padre di tutti gli dei e dove prosperò un amore così meraviglioso, come quello tra Elefethrios e Antygoni, era davvero una terra speciale...
Motivazione della Giuria
Le emozioni ed i ricordi di un vecchio marinaio a pranzo con l'amata moglie in una lussureggiante isola del mediterraneo. Una lettera sigillata gli riserva però un'altra "tempesta" da affrontare con coraggio,
in un delicato racconto dal sapore "mitologico".
 
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