Caterina mi guarda di Simone Antonioli - Bornoincontra

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Caterina mi guarda di Simone Antonioli

Premio Letterario

"Caterina mi guarda" di Simone Antonioli,
 Menzione Speciale della Giuria Edizione 2010



 
Caterina mi guarda con aria assorta. Dal 5 Agosto 2005 non riesco più a capire fino in fondo a cosa sta pensando. Quando ci siamo conosciuti - sono trascorsi ormai 15 anni - avevo quella particolare impressione - tipica, probabilmente, di tutti gli innamorati - che fossimo un'entità unica: "le mie emozioni, le tue emozioni, il tuo dolore, il mio dolore", ci dicevamo quando uno dei due era triste e l'altro voleva a tutti i costi far parte di quella tristezza. Ci siamo sposati con questa convinzione: la nostra sintonia era speciale e ci avrebbe permesso di superare qualsiasi prova.
 
Ora è qui vicino a me, quasi mi sfiora. Eppure siamo come due monadi: ognuno è solo, vive in una dimensione personale nella quale l'altro non può entrare perché non ha la chiave d'accesso.
 
Siamo saliti in montagna a trascorrere qualche giorno di vacanza, in questo paesino che tante volte in passato ci ha accolto come una madre con il suo fanciullo, perché Caterina mi ha chiesto di fidarmi di lei, di seguirla senza porre domande.
Cucinare mi rilassa: tagliuzzare le verdure, aspettare che l'acqua bolla, seguire le ricette del vecchio libro di mia madre. Di solito mi sento inadeguata, fuori luogo, come se fossi nata nel tempo e nel luogo sbagliato. Sono i piccoli rituali giornalieri che impediscono alla mia identità di disgregarsi totalmente, che mi danno sicurezza: preparare la colazione, recarsi al lavoro al solito orario, guardare la televisione prima di dormire.
Mi piace questo bed and breakfast: non è né grande né piccolo, né lussuoso né troppo sobrio.
Non mi sono mai sentita inadeguata qui, non ho mai dovuto dimostrare niente a nessuno. Forse perché è un posto mediocre ed io sono una persona mediocre: non sono particolarmente bella ma neppure brutta, non sono alta ma nessuno direbbe che sono bassa, lavoro come impiegata in una catena di supermercati, ho un marito, vado in piscina tre volte a settimana.
Odio questo luogo. Amo la montagna, la sua luce, quel senso di immensità, di infinito che si prova quando si arriva in cima alla vetta, ma non sopporto questo posto. Lo odio da quel giorno di cinque anni fa in cui la mia vita, la nostra vita è cambiata in modo irreversibile.
Camminavamo lungo quel sentiero che tante volte avevamo percorso insieme. C'era un ruscello, il solito ruscello, che sbarrava il nostro cammino.
Bisognava solo posare i piedi con attenzione, scegliere il sasso giusto e poi fare un piccolissimo salto verso l'altra sponda. Caterina è caduta. Caterina ha perso il bambino, il nostro bambino, atteso, desiderato, frutto del nostro amore, certezza della nostra eternità.
Mi ero ripromessa di non tornare: troppo dolore è stato associato a questo luogo. Ma qualcosa mi ha spinto a venire. Impossibile parlarne con Giuliano: non mi capirebbe, andrebbe su tutte le furie, anzi no, si chiuderebbe ancora di più nel suo mondo. Non abbiamo più parlato di noi da quel giorno. Il nostro amore si è spento lentamente, come una candela che pian piano consuma tutta la cera: senza scossoni, litigi, parolacce. Non so se lo amo ancora: certo è che non ho il coraggio di raccontargli niente di me stessa. Tre settimane fa ho rivisto per caso - stavo riordinando, dopo anni che non lo facevo, il mio comodino - le foto del bed and breakfast e delle nostre vacanze. I nostri occhi brillavano di una luce intensa, abbagliante, come quella che vedi nei bambini innamorati delle loro amicizie. Mentre osservavo quelle immagini - io e Giuliano sul letto matrimoniale, Giuliano che ride dopo che si è bagnato i pantaloni bevendo dalla fontana - ho sentito un impulso, quasi una voce che mi invitava a tornare. Anzi no. Ho provato una sensazione di costrizione: dovevo tornare, in gioco era la mia vita, la nostra vita.
Amo ancora Caterina? Me lo sono chiesto tante volte in questi anni e non sono ancora riuscito a darmi una risposta. Quando si può dire "ti amo"?
La osservo mentre cucina, i suoi movimenti lenti, ripetuti, i suoi capelli raccolti, le sue scarpe consumate. Vorrei parlarle, vorrei gridarle che Renato è morto per colpa sua, che mi ha rovinato la vita, che da quel giorno non mi riconosco più, mi guardo allo specchio e vedo un altro me stesso.
Mancava un mese al parto, non doveva percorrere quel sentiero. Perché non è stata a casa a riposare come tutte le donne in gravidanza? Perché è scivolata in un ruscello che aveva già attraversato in altre decine di occasioni?
La culla, il passeggino, la cameretta: Renato era già con noi, dentro la nostra famiglia, un futuro da costruire, il nostro futuro. Ed invece il suo cuore ha smesso di battere: piccolo uomo morto solo nel ventre di colei che avrebbe dovuto proteggerlo per tutta la vita. Non avevo mai pensato che un bambino morto dovesse essere anche partorito: in silenzio, nel dolore più atroce, senza vagiti, senza parenti e amici che aspettano fuori dalla sala parto, senza i messaggi di congratulazioni, senza i fiori sul comodino.
Sono seduta su un sasso a due passi dal torrente che fiancheggia il nostro rifugio. Sto leggendo l'ultimo libro di Grossman - a un cerbiatto somiglia il mio amore - mi identifico con la protagonista, sono anch'io alla ricerca di me stessa.
 
Sento ancora quell'impulso. Questa volta è più chiaro, mi parla, ma non riconosco la voce.
Da piccola la mia catechista mi diceva sempre che Gesù parla alle persone che sanno mettersi in ascolto. Mi arrabbiavo con me stessa perché quella voce io non l'ho mai sentita. Non credo nell'aldilà, sono convinta che dopo la morte ci sia il nulla, che il paradiso e l'inferno siano solo costruzioni mentali de1l'uomo che anela all'infinito.
Questa volta è diverso: non sto delirando, non uso droghe, non ho allucinazioni. Qualcuno si è infilato a mia insaputa dentro il mio corpo e vuole comunicare con me. Il messaggio è chiaro: devo cercare una pietra ma non so la forma, il colore, la grandezza. L'unica certezza è che lì posso ritrovare la mia strada.
Non abbiamo mai parlato dell'incidente. Non c'è stato bisogno di deciderlo con le parole: entrambi abbiamo scelto che era meglio così, che a tanto dolore si risponde solo con il silenzio. All'inizio, per la verità, ogni argomento di possibile conversazione era diventato un tabù. Nella nostra casa era scesa una nebbia fitta che impediva qualsiasi tipo di contatto. Durante il primo anno non abbiamo mai fatto l'amore. Quando abbiamo provato a ricongiungere i nostri corpi ho sentito nel profondo che il mio io si staccava da me: ero con mia moglie e nello stesso tempo ero lontano da lei anni luce.
Ho conosciuto altre donne, ho pagato per trenta minuti di sesso. La sensazione non è cambiata: ero io e non ero io e nel frattempo la mia identità si frammentava e disgregava lentamente e inesorabilmente.
Vorrei morire ma non ho la forza né il coraggio di scegliere un modo per uccidermi, di pensare al giorno e all'ora, di organizzare la procedura nei minimi dettagli, di portare a termine il mio intento. Ho sperato in mille occasioni che il destino decidesse per me: un incidente stradale come ne capitano tanti, una malattia incurabile.
Devo parlare con Giuliano. Sento che lui mi può aiutare a trovare la pietra. Corro dei rischi: la sua derisione, l'incredulità, il suo sguardo giudicante, la sua supponenza; non li posso sopportare ma ormai mi sono incamminata in questo sentiero tortuoso e non posso tornare indietro.
Caterina mi ha raccontato della pietra, dell'impulso, delle voci. Stavo per sogghignare, poi mi sono bloccato. Il 5 Agosto 2005, prima dell'incidente, all'inizio della strada, ai margini del bosco, ho inciso una pietra con un piccolo coltello. Non mi ricordo cosa avevo scritto, forse era un semplice disegno oppure uno scarabocchio utile solo per riempire il tempo.
Partiamo alla ricerca della pietra. Mi sembra di essere un'eroina dei film, Caterina dal cuore impavido.
La pietra c'è, nel punto esatto in cui l'avevo lasciata. È parzialmente coperta da uno strato di muschio ma c'è. "Caterina e Giuliano per sempre insieme". Tocco la pietra insieme a Caterina: s'illumina, una forza sconosciuta entra nel mio corpo.
Piangiamo, ci abbracciamo, ci raccontiamo per ore dove ci siamo persi in questi anni, parliamo di Renato, dei nostri sensi di colpa, delle paure, del futuro. La nostra identità si è ricomposta, perché esisteva solo nell'identità dell'altro.
Motivazione della Giuria
Per l'efficace confronto dialettico.
 
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