Nell’anno grazioso 1318, Bortolo il Saggio gran signore della solatia contrada Borno nomata, in un momento di serena beltade et pur’anco pace guerriera, per gratificar lo volgo erudito indisse tra poeti e litterati una gara di talento et passione e per lo vincitor d’ogni giudizio, promise borsa assai gonfia di monete sonanti. All’istante ci fu gran sorriso et pur’anco gaudiosa speranza e tutti, dallo vetusto allo novello, si adoprarono con sommo gaudio e ugual sudoranza, alla stesura di bello poema per giunger vincente allo tesoro promesso.
Aldebrando da Brexia, noto per sua turpe rima et cantico stonato, già pregustava con gran salivanza lo tintinnar di monete dorate perché lo di lui padre duca Ottobono, gli favellò di sonnecchiar sicuro: lo sangue bluastro facea da garante et niuno avrebbe osar osato opporsi a cotal nobil verdetto. Nello caso nefasto che vi fosse judice opposto et ribelle, pronto avea onoranze et soldo per riempir le avide fauci e niuno in cotal guisa pote proferir parola se non d’appoggio.
Frenesia d’istinto non fece discriminanza perché anco cerulee fanciulle et pur dame di belletto imbevute, versi in rime modeste e stolti racconti, composero con penna stordita. Su tutte Zenobia da Schilpèr, nomata da popol edotto “Rimosa Pietosa”, che poema scrisse pria di zampettar giuliva allo cospetto dell’alto prelato Zenobio suo potente fratello. Costui manco l’inizio volle sentir giurando sullo sangue comune che paciosa et serena potea restare: trionfo avea certamente dinnanzi ch’egli, sfruttando porpurea livrea, l’avrebbe condotta a vittoria sicura.
La mala intriganza per ottener lo trionfo lungo strade corrotte, trafisse lo timpano onesto di Bortolo il Saggio, che molto s’offese et deciso si pose a render innocuo lo progetto sleale. Essendo egli stesso poeta sublime, con scopo preciso di burlarsi di clero et nobiltade, alla gara egli stesso s’iscrisse. In villico abito lo corpo racchiuse et con volto coperto da cappuccio pendente, il giorno preposto in fila si mise. Dopo di tutti, lo banditor lo propose al volgo votante già molto provato:
- Ed ecco per vostro piacere et juditio, lo menestrello Rubilante dello Sfotto che con cetra mielosa e voce tonante ogni rima trasforma in cantica arguta. -
Ed egli sfidando occhi ben noti forte di mascheramento riuscito, principio diede allo poema composto.
- Vi si narra di cuoco Vilfredo che desco imbandiva del duca Ottobono che molto si beava di abilitade sua innata. -
- Eminenza, si rifocilli con lo fagiano ch’io stesso ho cacciato - disse lo nobiluomo con rubiconda gioia allo pasciuto prelato Zenobio allo desco invitato. Di fronte sostava umilmente impettito il cuoco Vilfredo attendendo il giudizio.
Lo prelato leccando le dita bisunte, al complimento si predispose:
- Ottimo et pure ben cotto, ma ho sicura certezza che lo fagian sia pennuto e non peloso come s’intravvede. A che si deve cotal trasformatio? -
- Ma eminenza… - precisò Vilfredo - … è lo pelo del Fagianorum Orsacchionis il più gustoso tra li pennuti ma anco lo più astuto e solo un abile et geniale et magnifico et ardimentoso cacciator d’animalo com’è lo duca Ottobono potea aver la meglio. Lo pennuto è spirato gioioso d’essere stato trafitto dalla mano potente del mio amato signore”
Lo duca gongolante sanza parvenza, lo apostrofò con viril tracotanza:
- Villico cuoco, non è l’astutanza d’un pennuto-peloso che pote gonzarmi. Son cacciator d’istinto e pur anco nobil di rango!“
- Bono assai, ma sarà lo vino corposo, sarà la vista non più novella, ma mi par di contar quattro zampe et una coda che lo fagian non possiede. - notò lo prelato con sospetto crescente:
- Si tratta di miracolanza… - aggiunse lo cuoco -…al solo annunzio del vostro nome d’immenso prestigio, le parti di sapor sublime son cresciute per la gioia d’esser da voi divorate. Come nella parabola della ‘moltiplicatio di code et cosce’ citata nella terza epistola di San Giovanni Ballista che vostra eminenza sicuramente conosce. -
- Ben remembro ambo le prime, per la terza ho vaghezza ma troppi son li pensieri che un’eminenza in crapula scrigna. Torna al pentolame, abile cuoco che lo cibo assai ghiotto hai ben preparato. Vai zotico che li nostri discorsi non potresti capire, n’evvero illustrissimo duca? -
Ossequioso et gaudente, Vilfredo tornò nella cucina laddove li suoi pargoli affamati di fagian s’eran pasciuti. Poscia entrò lo servo Marcasio che dello duca era fido tappeto:
- Dov’è codella irsuta pantegana da me catturata con ardimentoso ingegno? L’ho messa in quel pertugio per mostrar allo duca quanto son bravo ed or non la trovo. -
- L’ho vista zampettar lesta verso lo stagno. -
- Ma s’era decessa! -
- Ma la pantegana ha sette vite, è cosa nota. -
- Come li gatti? -
- Certo, se le hanno li gatti devono averle anco li topi, altrimenti di che si nutrirebbero? -
- Eh già, questa proprio non l’aveo pensata. -
E allor lo popolo di Borno rise gaudente che a clero e nobiltade la minchionata fosse rivolta e tanto acclamò lo poeta Rubilante, che fu nomato vincitor sicuro. Sol quando la borsa gli fu consegnata, Bortolo il Saggio mostrò chi fosse e tra la gioia del volgo presente, le monete sonanti a popol diede:
- Ma che fai – gli disse n’amico – avresti potuto tenerli in forziere. -
- In forziere detengo ben altra ricchezza. -
- E quale sarebbe? -
- L’aver minchionato due piccion con una fa… giana! -