"Merica” di Giorgio Contessi - Bornoincontra

Vai ai contenuti

Menu principale:

"Merica” di Giorgio Contessi

Premio Letterario
Merica” di Giorgio Contessi
 Primo Premio Categoria Adulti – Edizione 2021

 
 
E' vecchia. La scatola che Anita ha fra le sue mani è così vecchia che nessuno si ricordava più della sua esistenza. E' finita in solaio, fra reti di materassi, cianfrusaglie, brutti lampadari. E' lì, in un silenzio di polvere, senza disturbare nessuno, e così è riuscita a passare a lungo inosservata. Fino a questa mattina. Fino all'arrivo di Anita che con i suoi 17 anni ha fretta di correre verso il futuro, eppure, ogni tanto, frena e immagina il passato. Le rimbombano in testa le parole del nonno David, solo due settimane prima: “felici quelli che hanno famiglia, perché ogni passo che fanno sentono dietro di sé l’orma della sua immortalità”. Era stato proprio nonno David ad accompagnarla all’aeroporto di Curitiba, nel brasiliano Stato del Paraná, per il suo primo lungo viaggio transoceanico che l’ha portata in Italia. Meta: la Valcamonica. Chi altri, se non nonno David. Anita è arrivata fra le montagne camune grazie a lui, perché anni fa in Brasile il nonno cominciò a fare ricerche sulla famiglia, su quei benedetti cognomi: uno spagnolo, Nuñez, e uno italiano, Calvi. Cognomi troppo diffusi per poter far annusare piste concrete. La svolta ci fu quando il nonno trovò un vecchio santino appartenuto alla mamma che sul retro aveva cinque lettere: Edolo. In famiglia l'hanno ribatezzato il santino del miracolo, più che della svolta. Grazie alla sua intercessione, infatti, erano riusciti a scomodare persino i missionari italiani in Brasile, arrivando così al parroco di Edolo in Valcamonica. Lente verifiche, certificati di nascita che solcavano l’oceano, prima via posta ordinaria, poi via posta elettronica. Il risultato fu strabiliante: Gian Battista detto João generò Manoel Antonio, Manoel Antonio generò David, David generò Valentim e i suoi fratelli, fra loro Atilio lo sposo di Margarida, dalla quale è nata Ana detta Anita. Quando nonno David in aeroporto le aveva detto “boa viagem”, buon viaggio, Anita aveva sentito un brivido forse simile a quello che sentì Gian Battista quando lasciò la Valcamonica prima di diventare João in Brasile. Correva l'anno 1889. Sì, dopo più di cent'anni, oggi Anita chiude il cerchio, tornando a calpestare la terra del trisnonno João. E' solo di passaggio in Valcamonica, grazie a una borsa di studio che ha portato in Lombardia venti ragazze e ragazzi latinoamericani discendenti di italiani.
E’ timida e dolce, Anita. Posa la scatola. Frena e immagina. Su un quaderno con una matita traccia linee sottili, come sottile è la sua figura di ragazza. I disegni abbozzati torneranno a casa con lei in Brasile. In questi giorni immortala la Valcamonica, anche la casa da cui il trisnonno era partito perché così, disegnando, le sembra proprio di infilare  le dita nel passato. Tutto è cambiato da allora, ma sente che a tutto è legata, malgrado la distanza del tempo e dello spazio. “Da qui ho avuto origine anch'io”, pensa.
A 28 anni João, quando ancora era Gian Battista, partì per le Americhe. Tornò in Valcamonica una volta sola nel 1910 per salutare la madre malata e poi perse i contatti con terre e parenti. Nella casa materna lasciò una scatola, prima di ritornare per sempre in Brasile, dove morì nel 1942. La scatola era, è di latta. Ci sono case che ad ogni generazione sono sottoposte a trasformazioni che cancellano tutto, altre in cui si fa solo qualche ritocco e riescono a conservare persino dei cimeli. Anita ha proprio un cimelio davanti a sé. Eppure, resiste ancora un po', prima di aprirlo.
Di João, lei ha solo un'immagine in testa. E' quella di una vecchia fotografia che lo ritrae elegante, in giacca e farfallino, ma con un ciuffetto sparato verso l'alto che rompe le righe della brillantina. Dalla tasca della giacca gli spunta una penna. João, tutto stortino, piccoletto. In paese lo chiamavano ol ragnì. Per la raccolta del caffè in Brasile,  le sue piccole mani sembravano perfette, anche se invisibili nelle terre gigantesche dei fazendeiros. Gli italiani erano solo mani e braccia utili per la coltivazione del caffè, prima della caduta del suo prezzo; ci lavoravano fin dall'età di dodici anni per giornate che duravano anche 14 ore. Più di un milione duecentomila italiani arrivarono in Brasile fra gli anni settanta dell'Ottocento e gli anni venti del Novecento. Fra loro, João, lombardo, in mezzo a veneti, soprattutto, ma anche a calabresi, campani, toscani, trentini. João arrivò in Brasile l'anno dopo la legge che proclamò la fine della schiavitù. Erano i tempi in cui il Brasile assicurava il trasporto gratuito non solo alle famiglie di agricoltori, ma anche a contadini e artigiani celibi e vedovi. Che bellezza, viaggio gratis anche per João. Lui non aveva dato importanza a quel titolone visto su “Il Cittadino di Brescia” che diceva “Non andate in America!”. Prima nello Stato di San Paolo, un anno a schiena bassa a raccogliere caffè. Poi via verso il Paraná dove si sarebbe fermato il resto della sua vita. Abbandonò i chicchi di caffè per lavorare nella costruzione della estrada do ferro, la ferrovia brasiliana che sfidava luoghi impervi e che fu costruita per lo più dagli italiani. A João toccò uno dei tratti più duri, fra Curitiba e Paranaguà, in mezzo alle montagne della Serra do Mar, di una bellezza antica che però non riuscì a fargli dimenticare l'Adamello. Fu proprio durante la costruzione della ferrovia che João cominciò ad aiutare qualche compatriota, soprattutto veneto, perché il loro dialetto era simile. Gli chiesero di scrivere le prime lettere e poi João non si fermò più. Si era ricordato del racconto di un marinaio sulla nave a vapore da Genova a Rio de Janeiro. Gli aveva detto che a Città del Messico esistevano gli evangelisti: in plaza Santo Domingo, ai piedi di quello che fu il palazzo dell'Inquisizione, il lavoro degli evangelisti era quello di scrivere lettere o documenti per gli altri. João sapeva scrivere, un'abilità rara, perché in quegli anni più della metà degli italiani era analfabeta e parlava soprattutto il dialetto. João sapeva anche farsi pagare. Una mattina a San Paolo riuscì a farsi reclutare per scrivere: subagente di viaggio per una compagnia di navigazione. Divenne, così, un perno dell'ingranaggio d'inchiostro che faceva arrivare in Brasile braccia su braccia per il sacrosanto sviluppo del paese e per quello delle compagnie di navigazione italiane e dei proprietari terrieri brasiliani. Era necessario convincere i connazionali in Italia  che il Brasile era il paradiso terrestre. João girava le colonie di immigrati, anche negli Stati di Rio Grande do Sul e Santa Catarina; le sue mani trasformavano in oro le parole di disperazione che tanti italiani rassegnati gli affidavano per le famiglie in Italia. “E’ vero quello che dicevano, cioè che con poche viti si riescono a fare molte botti di vino qui”, scrisse in una lettera di un veronese del Paraná sfruttato e non pagato dal padrone. In un'altra, scrisse per un vicentino che viveva in una baracca: “Dovreste vedere, o caro padre, che bella colonia ho comperato: è in buona posizione; vedeste quanto legname c’è! Se fosse a Valdagno saremmo ricchi con tutto quel legname”.
Quelle belle lettere arrivavano in Italia e giravano fra case e piazze, seminando speranze. João aveva fatto sempre bene il suo lavoro, fosse la raccolta del caffè, una ferrovia o scrivere lettere che descrivevano un eldorado parallelo. Fingeva di non sapere che la propaganda capillare, in combutta con la Sociedade Promotora de Imigração, si insinuava nelle valli italiane, nelle montagne, nelle campagne, fra osterie e mercati, con storie artefatte e promesse di lavoro ingannevoli per la povera gente. Alle lettere, con il loro tono personale, si aggiungevano infatti manifesti, fotografie, opuscoli distributi anche nei luoghi più sperduti, a caccia di manodopera da esportare dall'Italia in fuga da povertà e pellagra al Brasile, il paese della cuccagna.
 Anita apre la scatola e ci infila le mani. La sua vita è al punto di toccare quella del trisnonno per la prima volta. Sfiora le prime carte ingialliate, non riesce a leggere bene, l'inchiostro è sbiadito. Poi affonda le dita fra buste e lettere, sente il passato ruvido sotto i  polpastrelli. Le fa passare una ad una e uno ad uno legge nomi e cognomi, tutti diversi. Di João, però, non trova traccia. In una lettera legge: Se  gli  altri  che  sono venuti nella Merica hanno trovato le grandesse io fin’ora ho trovato della miseria. Vi faranno conoscere i cenni delle grandesse del Brasile ma non dategli retta che io fino a qui le ho provate e  le trovo tutte promesse vane”. In un'altra: “Qui siette schiavi più che in Italglia”.
 Anita chiude la scatola. Capisce che lì dentro João aveva nascosto la verità, quella delle lettere autentiche dei suoi connazionali in Brasile. Non immagina che, al tempo stesso, il trisnonno aveva sostituito la verità con dei falsi. Eppure, Anita dirà alla famiglia che in solaio non ha trovato proprio nulla. Solo polvere. E silenzio.
Motivazione della Giuria
La giovane Anita giunge a Edolo per conoscere i luoghi e la storia dei suoi avi, trovando una vecchia scatola di latta che contiene una scomoda verità. Un racconto originale e dal sapore antico, dalla scrittura fluida, sensibile e curiosa, che evidenzia talento nel rappresentare un mondo lontano, tra la vita del bisnonno Gian Battista detto João e le emerite fandonie sulla “Merica”.
 
Copyright 2016. All rights reserved.
Torna ai contenuti | Torna al menu