di Pino Botta
Nel lontano 1970 Presidente della Repubblica era il socialdemocratico Giuseppe Saragat e Presidente del Consiglio il democristiano Mariano Rumor. Il Cagliari di Gigi Riva vinse lo scudetto e l’Italia vinse 4-3 la Partita” del secolo con la Germania, ma perse 4-1 la finale della Coppa Rimet contro il Brasile. Ci consolammo al cinema con “Anche gli angeli mangiano fagioli” con Bud Spencer e Terence Hill...
Il Festival di Sanremo venne vinto da Celentano e Claudia Mori con “Chi non lavora non fa l’amore” davanti ai Ricchi e Poveri con “La prima cosa bella” a Sergio Endrigo con “L’arca di Noè”. Molto staccata dai primi giunse Orietta Berti con “Tipitipitì”.
Musicalmente al mondo c’erano anche gli ultimi Beatles, i Led Zeppelin, l’LP di Woodstock, e Simon & Garfunkel, ma io il 28 febbraio 1970 questo ancora non lo sapevo. Quello che mi interessava era poter registrare le canzoni del Festival per risentirle il giorno dopo in macchina. Ai tempi bisognava arrangiarsi ed io lo feci, usando un registratore a bobine della Magnetofoni Castelli (col microfono vicino all’altoparlante della TV). Avevo 13 anni e il giorno dopo era prevista una gita in montagna: andavamo a trovare un cliente di mio padre che aveva acquistato da poco una villetta a Borno.
Il viaggio verso questa nuova destinazione fu veloce e gradevole: a tutto volume. Ricordo che all’altezza di Ossimo Superiore la benzina iniziava a scarseggiare e non eravamo certi che ci fosse un benzinaio in un posto così sperduto. Fu così che iniziammo a cantare “Io mi fermo qui” dei Dik Dik. Che fosse un presagio?
Fatto sta che raggiungemmo, comunque, la meta. La villetta del cliente di mio padre, in Via Rivadossa, aveva una vista splendida, la giornata era piena di sole, l’ospitalità era impeccabile.
Dopo pranzo visitammo il centro del paese: vedendo la piazza, la fontana e il sagrato a mia madre venne spontanea la domanda: “Ma non è che ci sia una casa in vendita qui?”
Ora qualcuno potrebbe dubitare del fatto che in quel frangente si palesasse istantaneamente un geometra che aveva avuto un incarico di vendita la sera prima.
“Solo nella favola di Aladino può apparire il Genio al momento opportuno! Questa storia non è vera!” Lascio serenamente i dubbi a chi se li vuole tenere, ma la verità è che noi ci trovammo a vedere quella che sarebbe diventata la nostra casa lo stesso giorno in cui visitammo Borno per la prima volta. Fu amore a prima vista.
Borno ai tempi non aveva ancora la vocazione turistica di oggi, anzi: era un paese decisamente più piccolo. Quasi non c’erano case oltre l’Hotel Korallo (che ai tempi si chiamava Rusen). Al posto del Sermark, in cima al paese, c’era una fabbrica di bottoni.
In Via Vittorio Veneto aveva appena aperto il negozio di calzature, Martino gestiva la Genzianella Sport dove ora c’è la Coccinella, la ferramenta Stella Alpina era al posto del negozio dei funghi. Invece del PizzCamì c’era il primo negozio di Zanaglio. E poi c’erano macchine ovunque: si transitava con doppio senso di marcia. I dissuasori dovevano ancora essere inventati…
A quei tempi non c’erano gelaterie e ricordo pochissimi bar o ristoranti: però avevamo il Cinema Pineta e d’estate si faceva la coda per entrare.
Nel 1970 non c’erano nemmeno le cabine telefoniche: era appena stata attivata la teleselezione. Per ricevere le telefonate si chiedeva il piacere di utilizzare il telefono di qualche negoziante. Noi andavamo dalla Madalì, che aveva un negozio di alimentari di fronte alla farmacia, dove ora c’è Squaratti.
Era un piacere veder seccare i funghi porcini all’aperto, fuori dalle porte, su di una sedia e senza nessuna custodia. I bornesi si fidavano gli uni degli altri: erano - e sono - una grande famiglia.
All’inizio degli anni ‘70 a Borno non c’erano ovovie, seggiovie o skilift, ma nevicava sempre. Per sciare si andava oltre Croce di Salven dove una manovia (cioè una corda cui attaccarsi con le mani) risaliva una blanda discesa per circa 200 metri.
È proprio del 1970 la prima delle cronoscalate Malegno - Borno. Forse anche così si cercava di richiamare il turismo.
A quei tempi ho conosciuto i cugini Guidetti, con cui giocavo a pallone nel parco della Villa. Dove ora si fanno alcuni giochi del Palio c’erano due porte da calcio. Per accedere al Parco bastava passare su di un ponticello di legno, direttamente dalla Villa.
Mia madre frequentava Adelina Trotti, l’ostetrica cui è dedicata la scuola e la madre e le sorelle della Famiglia Re, quella del Cardinale Giovanni Battista. Mio padre ospitava spesso alla domenica il padre del Cardinale, il Signor Matteo, falegname cui non dispiaceva affatto il nostro moscato pugliese.
Anche io ho frequentato un Re, modestamente. Era Padre Pierino Re (cugino di Giovanni Battista): la persona più allegra e disponibile che io abbia mai conosciuto. È morto da missionario in Togo, troppo giovane e troppo poco rimpianto.
Chiudo queste note ricordando un pomeriggio estivo del 1974. Era l’8 agosto e stavo bellamente facendo i fatti miei, forse giocavo con mio fratello nel cortile di casa. D’un tratto vedo arrivare quattro o cinque signori di Borno che ci invitano, con molta decisione, a seguirli in montagna. Ai tempi la parola trekking non era ancora stata importata in Italia, ma - seguendo gli sconosciuti bornesi - mi sono trovato a fare trekking a mia insaputa.
Una volta arrivati a San Fermo mi è stato offerto un bicchiere di vin brulè. Quello offriva l’organizzazione! Nel rifugio non c’era ancora l’acqua: bisognava andare a prenderla con una tanica al ruscello, più in basso...
Corroborato dal vino e dalla luce della torcia ho partecipato così alla prima fiaccolata. All’arrivo non c’era la diretta TV, le bancarelle e mezza Valle a guardare, come ora. All’arrivo quella sera c’era tutta Borno ad applaudire e un immenso falò, sempre più grande, alimentato dalle torce di quei pochi temerari scesi da San Fermo.
Di quella serata mi è rimasta la medaglietta ricordo (ma non ricordo dove mi sia finita) e la sensazione di essere per i bornesi sì un villeggiante, ma uno accettato, uno della comunità.
Dal 1970 Borno è il rifugio per le mie vacanze e per il relax, ma rappresenta per me soprattutto un luogo dell’anima, il posto dove ho stipato, come in uno scrigno, una vita di ricordi, di affetti e di amicizie, troppo lunghe e troppo intense per essere ricordate così, in poche righe.
Oggi, a 50 anni esatti dalla mia prima volta, nella casa di Borno c’è mio figlio, con la moglie e mia nipote. La vita è continuata, è volata quasi, ma la casa è ancora lì. Ci sono cresciuto io e lì, con mia moglie - anche lei bornese adottiva -, ho cresciuto i miei figli. E spero che loro possano fare lo stesso.
Spero anche che fra altri 50 anni i miei eredi possano raccontare il seguito a questa piccola storia e che la Redazione la voglia ancora, cortesemente, pubblicare sulla Gazza… Pota!